Piccole vittorie quotidiane: come arrivare a una "giornata buona"
Dal To-Do al Done, dare un nome alle nostre emozioni, ridere (anche di noi stessi)
PICCOLE VITTORIE QUOTIDIANE
Madre Tacchina faceva la maestra in una scuola elementare. La sua classe era composta da una trentina di cuccioli: tutti parecchio diversi, tutti con almeno un telefonino sotto il banco, e quasi tutti figli di genitori un pochino ansiosi.
Per la povera Madre Tacchina, il momento più terribile del quadrimestre era, infatti, quello dei colloqui. Non perché la sua classe fosse “la peggiore di sempre”, anzi, ma perché i genitori arrivavano da lei al galoppo, nitrendo per l’insoddisfazione e spesso schiumando per la rabbia e lo stress.
Il suo metodo di insegnamento era stato approvato direttamente dall’Organizzazione Interplanetaria per la crescita collettiva.
“È inaccettabile che lei non metta i voti”!”
“Mio figlio Giangiacomo mi ha detto che fate lezione in giardino, in mezzo ai pericoli. Le faremo scrivere da un avvocato!”
I genitori erano sempre arrabbiati. Troppo arrabbiati… e Madre Tacchina sapeva che per i piccoli non era cosa buona…
Una sera, prima di coricarsi, le capitò di leggere un articolo su un certo professor Goleman che parlava di vittorie quotidiane, di come alcune di esse potessero farci sentire meglio. Così tanto da portare benessere all’intero organismo: corpo, mente, emozioni, psiche, microbiota perfino!
La mattina dopo, finito l’appello, guardò la sua bella classe e disse:
«Bambini, ho una domanda per voi. Siete pronti?»
«Sì!» Risposero i pargoli in coro.
«Cos’è per voi una “buona giornata”? Attenzione, prima di rispondere: non vi sto chiedendo cosa sia una “bella giornata”, ma una giornata buona, una di quelle che alla sera vi fanno sentire bene».
I ragazzi si guardarono l’un l’altro, pigolando a becco stretto, agitando le fronde, e facendo anche vibrare le radici, finché una pavoncella non alzò la mano.
«Posso parlare, madre Tacchina?»
«Certo, cara, quando vuoi».
«Per me è una buona giornata quando la mamma mi chiede se ho fatto i compiti, tutti i compiti…»
«Capisco,» disse la maestra, «ma sei sicura-sicura che rispettare la To-do List sia abbastanza per farti dire che è stata una “buona giornata”?»
Prima che la pavoncella avesse il tempo di rispondere, Gianni, il fagiano del terzo banco, disse che per lui una buona giornata era quando riusciva a non arrabbiarsi con quello spiumato di suo fratello piccolo.
«È una vera piaga, fa sempre i capricci, e se io riesco a non mettergli le zampe addosso, anzi, quasi a ignorarlo, ecco, allora è proprio una buona giornata».
Madre Tacchina non aveva mai avuto problemi con i suoi diciotto fratelli e nemmeno con le quindici sorelle, però pensò al traffico e subito capì cosa volesse dire Gianni. Non è facile evitare di agitarti nel bel mezzo della tangenziale, con i SUV che ti suonano appena rallenti, o alle rotonde, dietro alle vecchie poiane col cappello che stanno lì e non partono… O mentre aspetti di fronte alle strisce che i pedoni in stile Beatles si decidano ad attraversare…
Mentre pensava a tutto ciò, Jenovia, la coniglietta mezza veneta e mezza francese, alzò la mano.
«Per me una buona giornata è quando mi viene bene la torta di carote… e magari la divido con le mie amiche, e alla fine mi sento proprio felice! Ecco, allora sì che la giornata è proprio buona!»
«Io, invece,» disse Paolo, l’asino nipponico in prima fila, «sto benone quando non mi faccio prendere dal clima tossico dei miei compagni di Aikido, dall’ansia di prestazione, e cose così. Se resto concentrato, allora è una buona giornata…»
«Anche per me, uguale identico», disse l’oca scacchista. «Se accetto la tensione e la lascio fluire, magari con qualche esercizio di respirazione controllata, allora gioco anche meglio!»
L’ultimo a parlare fu Astrolabio, la terza Sanseveria da sinistra.
Lo fece, ovviamente, grazie al “Chimicator”, il traduttore chimico che prendeva i pensieri vegetali dalle radici dei ragazzi e li riconfigurava in parole comprensibili per il resto della classe. Astrolabio disse che a loro (per riferirsi a sé stesse, le piante usavano il pronome “loro”) bastava poco.
«Se, vada come vada, è una buona giornata ogni volta che riusciamo a ridere delle nostre stesse “cavolate”!»
L’intera classe scoppiò a ridere, mentre Madre Tacchina si trovò a riflettere sull’arguzia dei suoi giovani studenti. Sapeva di avere una classe evoluta, ma si stupì comunque del fatto che i piccoli avessero centrato i punti cardine dell’articolo sul professor Goleman… E senza nemmeno averlo letto!
Potremmo star meglio
L’abbiamo già detto, qua e là: è un mondo difficile, è vita intensa1… Ognuno di noi, ogni giorno, si trova a “combattere” contro il tempo che non basta mai, nel traffico, al lavoro e in casa. Lottiamo contro i chili di troppo, contro la sindrome dell’intestino irritabile, contro i pensieri e le emozioni che a volte sembrano sopraffarci. Oppure schiacciarci…
Eppure potremmo star meglio. Ormai lo sappiamo, e se non lo sappiamo, faremmo bene a saperlo. Per vivere meglio il segreto non è più segreto2 da un pezzo.
Per farlo ogni giorno, e imparare a trattarci bene, per esempio potremmo smettere di usare il lessico della guerra.
Combattere
Lottare
Sconfiggere
E poi… e poi…
Potremmo partire non dalle migliaia di cose che non siamo riusciti a portare a termine, ma da quelle che invece abbiamo fatto (dal To-Do verso il Done3).
E quindi, potremmo iniziare a congratularci con noi stessi, seguendo i lungimiranti esempi del raccontino alla Orwell 2.0, per le nostre piccole vittorie quotidiane, proprio come sostiene il citato Daniel Goleman4, nel suo ultimo libro “Optimal: How to Sustain Personal and Organizational Excellence Every Day” (Harper Business, 2024).
«Avere una buona giornata significa che abbiamo fatto abbastanza per congratularci silenziosamente con noi stessi", dice Goleman in una conversazione con EL PAÍS. Nota: una buona giornata non significa necessariamente che tutto sia andato secondo i piani. Non abbiamo bisogno di sperimentare la massima efficacia per sentirci bene, né è necessario dare il massimo in ogni singolo momento. Lo stato ottimale è più realistico, più semplice. Significa essere in uno stato d'animo che ci permette di risolvere le sfide quotidiane con creatività e persino con senso dell'umorismo. In altre parole, quando siamo in uno stato ottimale, ci piace quello che facciamo e riusciamo a placare il nostro giudizio interno, che spesso può distruggere il nostro benessere. Ecco la parte più importante: questo stato ottimale si basa sul nostro comportamento e sulle nostre scelte».
Il primo passo è la concentrazione.
Ossia“restare sul pezzo”, magari, una volta tanto, lasciando perdere il maledetto multitasking5 che ci ha reso (tutti, dal primo all’ultimo) quasi incapaci di guardare un film senza fare altro…
Il secondo?
Allenare la nostra intelligenza emotiva.
Come dice Goleman, "L'obiettivo finale dell'intelligenza emotiva è aiutare gli altri e noi stessi a raggiungere e mantenere stati ottimali". Se abbiamo la capacità di percepire, comprendere e gestire le nostre emozioni e quelle delle persone che ci circondano, saremo maggiormente in grado di raggiungere tali stati. Per farlo, il passo più importante è sapere cosa ci sta succedendo, ovvero migliorare la nostra auto-conoscenza.
Anche quando ci troviamo in un ambiente “tossico”, come la squadra di Aikido del nostro asinello super smart, possiamo lavorare sulla nostra granularità emotiva, ossia imparare a dare un nome a ciò che sentiamo e quindi imparare a gestire le occorrenze emozionali meno piacevoli…
Tenendo conto che a volte, tali occorrenze (tu chiamale se vuoi “emozioni”), possono essere figlie di ciò che il nostro magnifico e complicatissimo organismo sta affrontando.
È un mondo difficile, è vita intensa
Se fallisci una volta, ci sta. “Errare è umano”, dicono. Ma se fallisci due, tre, quattro, cinque volte? E se fallisci otto volte? Sono le prime ore del mattino e Lisa è già in laboratorio alle prese con un esperimento che in teoria doveva essere una passeggiata.
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