L'unico orologio che faresti meglio a NON ignorare…
Orologio biologico e ritmi circadiani: ancora sul dormire meglio per vivere più a lungo e più in forma
Da quando ho iniziato il blog, di solito parto con un racconto al quale faccio seguire qualche riga di riflessione più o meno legata ai temi cari ai miei lettori (pancia e dintorni, sindrome dell’intestino irritabile, asse intestino-cervello, eccetera…). Oggi però, prima del racconto, ci serve una premessa.
Qualche sera fa mi è capitato di vedere “Midnight Mass”, una mini serie Tv della quale non vi spoilero altro se non una certa battuta di uno dei protagonisti, un certo Riley che sta rispondendo a una ragazza che gli chiede cosa succeda dopo la morte. Riley dice che, per quanto ne sappia lui, il suo corpo smette di funzionare, ma non tutto, perché i suoi batteri, i microbi (Ah ah! Il microbiota!), i funghi e i parassiti dei denti, delle unghie, della pelle e dell’intestino invece continuano a vivere. Non solo: diventano altro. Diventano il nutrimento di altri esseri viventi. Finché i suoi atomi “sono nelle piante, negli insetti e negli animali”1.
Dopo la puntata (episodio “Libro IV: Lamentazioni”), ho iniziato a pensare che potrebbe avere senso. Anche se quella di Riley è solo una battuta di una serie tv, non è detto che i microbi, i batteri e i funghi del nostro microbiota muoiano con noi. Anzi, ammesso di non finire in un’urna, il nostro pimpantissimo microbiota potrebbe benissimo continuare a vivere.
E se lo facesse, mi sono chiesto, e se vivesse in altro, se rinascesse in un’altra forma di vita che noi Sapiens consideriamo inferiore, solo perché ancora non la capiamo? E se rinascendo in una pianta, o in fungo, il microbiota ADDIRITTURA conoscesse la storia del suo ospite? Su questa scia, cara persona che stai leggendo questo post, ecco il mio racconto di oggi.
I tre cronobiologici diventati vegetali
Per uno strano scherzo di quello che alcuni di noi chiamerebbero destino, e altri solo caso, a un certo punto, le spore di un fungo e i semi di una piantina finirono nel bel mezzo di una foresta francese, proprio sotto a un abete argentato posto al centro di una piccola radura.
Per ritrovarsi tutti e tre nel raggio di pochi metri quadrati, due dei tre vegetali avevano viaggiato a lungo, superando addirittura un intero oceano. Le spore del fungo - per la precisione un porcino Boletus edulis - venivano infatti da Los Angeles, California, mentre i semi della piantina da Minneapolis, Minnesota. L’abete argentato, invece, non s’era mosso granché, trasportato dalle unghiette di un roditore quando ancora non era altro se non un mucchietto di cellule, fango e parassiti.
Nell’arco di poche ore, mentre il porcino aveva già raggiunto l’adolescenza e la piantina stava appena iniziando a stiracchiare le sue radici tra quelle dell’abete, i tre vegetali iniziarono a comunicare.
Il primo ad aprire bocca fu l’abete.
«Ah… i giovani di oggi» si lamentò il più anziano, infastidito dal brusio chimico dei due ragazzacci.
Per essere onesti, va specificato che si trattava appunto solo di chimica, perché la comunicazione delle piante (per quanto poco ne sappiamo2) avviene attraverso segnali che non hanno nulla a che vedere con i suoni, né con le parole, ma solo con la chimica che il regno vegetale domina da ben prima che noi Sapiens imparassimo a costruire gli alambicchi.
«Cos’è che ha detto, lo zio?» chiese il fungo, che nel frattempo era già un giovane adulto, tutto spore e lamelle ingellate.
Per tutta risposta, tre ore dopo, la mimosa sputò fuori il primo germoglio con uno sforzo immane. Dodici ore più tardi, il germoglio era già un piccolo stelo e su di esso comparvero le prime tre foglioline. Neanche il tempo di aprirle in cerca di un po’ di vitamina D, ed ecco che il vecchio e maestoso abete ricominciò a brontolare.
«Fanciulli, di grazia… Siamo quasi al crepuscolo, e ordunque vi supplico di smetterla con cotanto baccano. Starei cercando di godermi un poco di meritato riposo…»
«Ah sì?» Chiese il fungo «Riposo da cosa che non ti muovi da mille anni, zio?! Non sarai mica stanco?»
«Non mi pare d’esser stanco. Non più degli ultimi 253 anni, almeno. Eppure, abbisogno di rigenenare le mie molecole, i rami, il tronco, le radici soprattutto, ovverosia di riposare, sì, e tutto ciò in nome della dovuta fedeltà ai ritmi circadiani».
Nel sentire “ritmi circadiani” la piantina andò in visibilio: ora lei era un giovanissimo virgulto di quella che gli umani chiamano Mimosa Pudica, ma prima di essere una mimosa qualsiasi, era stata parte del microbiota di uno scienziato al quale dobbiamo la nascita della cronobiologia.
«Mi perdoni, signor Abete, sbaglio o mi sembra di averla sentita dire “ritmi circadiani!?»
«No, mademoiselle, non sbagliate affatto, e per giunta, mi accorgo solo ora della vostra natura tanto gentile quanto pudica…»
«Ma perché parlavate di ritmi circadiani, se posso chiedere?»
«Perché? Be’, quasi lapalissiano, direi: perché tali termini fui proprio io a coniarli, più di due secoli or sono, nel lontano 1729, secondo il tempo degli umani, dei quali, per ben 93 anni, io fui un rispettabilissimo membro che rispondeva al nome di Jean-Jacques d'Ortous de Mairan».
«Non ci posso credere! Siete voi! Siete proprio voi l’astronomo?»
«Ordunque, madamoiselle, voi mi conoscete?»
«Sì, signore, vi conosco eccome, perché fino al 2013 e quindi molto prima di diventare questo, ero parte del microbiota di un certo dottor Franz Halberg che studiava proprio voi e le vostre scoperte…»
«Ma tra tutte le foreste del pianeta,» sbottò il fungo «tra tutti i boschi e le praterie soleggiate, tra tutti gli stagni, gli acquitrini, e le paludi, è mai possibile che sia finito proprio qui, e proprio in compagnia di due nerd?»
«Può essere il Karma» gli sibilò la mimosa.
«Secondo me no, Crisantemo, secondo me è solo sfiga,» ribatté il fungo «era meglio finire in un risotto…»
«Ma come ti permetti?» Disse la mimosa. «Noi siamo stati due scienziati! Io ho quasi preso un Nobel, e l’abete non è solo un grande anziano, per cui rispetto, ma è il padre della cronobiologia, ammesso che un fungastro come te sappia cos’è…»
«A parte il “quasi”, comunque lo so, fiorellino, lo so eccome».
«Ah sì, e come fai a saperlo?»
«Perché anch’io vengo da una manciata di roba tra i denti e sotto le unghie di uno scienziato».
«Non ci credo. E chi sarebbe questo sedicente scienziato, un alienista?.. Un frenologo?!»
«Fai poco la simpatica, Fiordaliso. Il mio tartaro era quello di Nathaniel Kleitman».
«Non è vero!»
«Oh sì, babe, è vero, eccome!
«Ma….ma Kleitman Kleitman? Quello dell’esperimento di Mammoth?»
«L’unico e il solo, Rosaspina».
Solo allora l’abete si intromise. «Chiedo venia, vostre grazie, ma se non vi recasse troppo disturbo, gradirei essere edotto acciocché mai, finora, mi pare di aver sentito pronunziare siffatto nome…»
Il fungo, ormai adulto, addirittura anziano a un soffio dal declino, iniziò a raccontare di quando, da umano, lui e il suo assistente rimasero per 32 giorni nella grotta di Mammoth, a 150 metri sotto terra, tornando in superficie con le misurazioni scientifiche che poi permisero di dimostrare l’esistenza dei ritmi circadiani.
Ma era tardi: al calare del crepuscolo, l’abete aveva già chiuso gli organi di senso e la Mimosa Pudica tutte e tre le sue foglioline. Il povero fungo, l’unico vegetale ancora sveglio, stava parlando da solo. Dopo un’intera esistenza da umano a studiare i ritmi circadiani, il caso o forse il destino, o magari entrambi avevano scelto di fargli vivere tutti e tre i giorni della sua breve vita accanto a due cronobiologi.
Mentre il vecchio fungo sentiva le sue lamelle afflosciarsi e cedere alla gravità, il terreno prese a vibrare, sempre più forte, scuotendo il porcino fino alle spore. L’ultima cosa che sentì, pochi istanti dopo, furono le fauci di un ungulato che si richiudevano sulla sua testa ormai molliccia. E poi il grugnito di una cinghialetta che rispondeva a sua madre:
«Sì, mamma, ho controllato prima di mangiarlo. Era edibile, giuro»·
Ritmi circadiani
C’è un orologio dentro a ogni essere vivente. È un orologio innato, fisiologico, che segue un ritmo tutto suo. Ce l’hanno gli esseri umani, ce l’hanno gli animali e ce l’hanno anche le piante e i funghi.
L’orologio biologico della Mimosa Pudica servì all’astronomo francese Jean-Jacques d'Ortous de Mairan (l’abete del mio raccontino) per dimostrare che i modelli di 24 ore nei movimenti delle piante di mimosa pudica continuano anche in condizioni di buio costante (cioè dentro a una scatola). L’orologio biologico di noi Sapiens invece fu oggetto degli studi di diversi cronobiologi, tra i quali Franz Halberg, che iniziò i suoi esperimenti negli anni quaranta del Novecento, fondando il primo laboratorio di cronobiologia della nostra storia. Quanto a Nathaniel Kleitman, che ho fatto rivivere sotto forma di porcino, fu lui a dimostrare la presenza dei ritmi circadiani sul corpo umano, proprio con l'esperimento nella grotta di Mammoth.
Questo orologio interno scandisce i tempi di ogni organismo: il rilascio di alcuni ormoni, le funzioni di certi sistemi, il ritmo veglia-sonno, il ritmo di secrezione del cortisolo e di varie sostanze biologiche, il ritmo di variazione della temperatura corporea e di diversi altri parametri legati al nostro sistema circolatorio.
È importante conoscerlo, prenderne consapevolezza e quindi dargli credito perché il sonno è uno dei due ingredienti dell’Elisir di lunga vita, (l’altro è la cacca), come vi raccontavo nel post “I dannati della terra e l'Elisir di lunga vita dell'alchimista”.
A proposito di ritmo sonno-veglia, il nostro orologio sa a che ora sarebbe bene andassimo a nanna.
Solo che spesso noi lo ignoriamo o lo posticipiamo o ancora lo zittiamo come facciamo con gli allarmi dei nostri telefonini.
Specificando che ogni essere vivente ne ha uno tutto suo, possiamo però dire con una certa sicurezza che per addormentarci ci sono alcuni momenti più favorevoli di altri. E questo in virtù proprio del “ritmo circadiano” - ossia il ritmo giorno-notte - che ci fa sentire svegli o viceversa stanchi a orari regolari e in base a due sostanze:
1. melatonina
2. adenosina.
L’orologio biologico si trova nell’ipotalamo, all’attico, in una zona chiamata “nucleo soprachiasmatico”.
Il nucleo soprachiasmatico comunica il suo segnale “giorno-notte” al cervello e al corpo usando un messaggero chiamato melatonina, ovvero un ormone rilasciato dalla ghiandola pineale. Due ore dopo il tramonto, la suddetta ghiandola pineale rilascia la melatonina che via via aumenta, raggiungendo il suo picco tra le due e le quattro del mattino e poi diminuendo gradualmente fino a sparire.
Quando invece siamo svegli, il nostro cervello rilascia adenosina, una sostanza derivata dal. metabolismo energetivo che aumenta col passare delle ore (più ci muoviamo, più ne produciamo) e finisce per farci venire davvero voglia di andare a nanna.
Se andiamo a letto presto, due o tre ore dopo esserci nutriti, e meglio se con un pasto leggero (ne parleremo nel prossimo post: cosa mangiare e cosa no per dormire meglio), non ci servono camomille e/o sonniferi: quando diamo retta all’adenosina, possiamo approfittare dei rilassanti endogeni, ovvero auto-prodotti, come, appunto la melatonina.
Non solo, se ci addormentiamo seguendo il nostro orologio biologico, possiamo anche godere dei cosiddetti ormoni anabolici, fondamentali per i processi di crescita e riparazione nel corpo. Uno di questi ormoni è quello della crescita, chiamato GH, il cui picco più significativo si verifica in genere poco dopo l'inizio del sonno profondo.
Poi la notte avanza e, verso le prime ore del mattino, iniziamo a produrre DHEA e cortisolo, gli ormoni dello stress, e il testosterone che ci dà la forza per le operazioni più impegnative.
Andare a letto e alzarci più o meno alla stessa ora, ci permette di approfittare di uno fra i più potenti elisir di lunga vita a nostra completa disposizione.
Quando nel post precedente accennavo alla regolarità, parlavo proprio di cicli e ritmi circadiani.
Parlavo di buone abitudini3.
Parlavo più o meno delle stesse cose che mi hanno spinto a mettere il sonno in pole position sulla scala del benessere. Ovvero a considerare il sonno come la prima buona abitudine per cominciare a risolvere un’infinità di disagi, come la sindrome dell’intestino irritabile, i disturbi depressivi e l’ansia, ma anche per regolare il senso di sazietà, e in caso servisse, dunque, per aiutare il nostro organismo a ritrovare l’equilibrio e tornare in forma.
«Quando muoio... il mio corpo smette di funzionare. Si spegne. Tutto in una volta, o gradualmente, il mio respiro si ferma, il mio cuore smette di battere. Morte clinica. E un po' più tardi, tipo cinque minuti interi dopo... le mie cellule cerebrali iniziano a morire. Ma nel frattempo, nel mezzo... forse il mio cervello rilascia una marea di DMT. È la droga psichedelica che viene rilasciata quando sogniamo, quindi... sogno. Sogno più di quanto abbia mai sognato prima, perché è tutto qui. L'ultima scarica di DMT tutta in una volta. I miei neuroni si attivano e vedo questo spettacolo pirotecnico di ricordi e immaginazione. E sono semplicemente... in trip. Voglio dire, sono davvero in trip, perché la mia mente sta frugando tra i ricordi. Sai, a lungo e a breve termine, e i sogni si mescolano ai ricordi e... si apre il sipario. Il sogno che mette fine a tutti i sogni. Un ultimo grande sogno mentre la mia mente svuota i fottuti silos dei missili e poi... mi fermo. La mia attività cerebrale cessa e non rimane nulla di me. Nessun dolore. Nessun ricordo, nessuna consapevolezza di essere mai stato, nessun... di aver mai fatto del male a qualcuno. Di aver ucciso qualcuno. Tutto è come era prima di me. L'elettricità si disperde dal mio cervello fino a ridurlo a un tessuto morto. Carne. Oblio. E tutte le altre piccole cose che mi compongono, loro... i microbi e i batteri e il miliardo di altre piccole cose che vivono sulle mie ciglia e nei miei capelli e nella mia bocca e sulla mia pelle e nel mio intestino e ovunque, continuano a vivere. E a mangiare. Uh.... E io sto servendo uno scopo. Sto alimentando la vita. Vengo fatto a pezzi e tutti i più piccoli pezzi di me vengono riciclati e sono in miliardi di altri posti. I miei atomi sono nelle piante, negli insetti e negli animali e io sono come gli inizi del cielo. Un momento sono lì e poi si disperdono nel maledetto cosmo». Brano autotradotto dal dialogo originale dell’episodio della serie Tv “Midnight Mass”. Qui la Fonte
Su come comunichi il regno vegetale, o sui loro straordinari organi di senso, si legga Stefano Mancuso.
Ne ho parlato anche in “Intestino senza pensieri”, uscito per Sperling & Kupfer. E ne sto scrivendo anche nel mio secondo libro che invece tratta di… stress!