Giovani e tristi: sulla crescente infelicità giovanile nell'era di internet
World Happiness Forum 2024: infelicità, smartphone, e microbiota
Tra le mille statistiche che misurano il nostro universo, ce n’é una che tiene d’occhio il livello di felicità globale. Si chiama “World Happiness Report”1 e quello del 2024 rivela che i giovani sono meno felici rispetto alle generazioni più mature e addirittura sembrano in preda a una sorta di crisi di mezza età.
Il World Happiness Report 2024 mostra cali preoccupanti nella felicità dei giovani, soprattutto in Nord America e nell'Europa occidentale.
Questo studio è importante perché il benessere e la salute emotiva dell'infanzia sono tra i migliori predittori della soddisfazione della vita adulta: le ricerche precedenti hanno concluso che gli adolescenti e i giovani adulti che dichiarano una maggiore soddisfazione di vita ottengono livelli di reddito significativamente più alti in seguito, anche tenendo conto delle differenze di istruzione, intelligenza, salute fisica e autostima.
Non solo.
Il calo della felicità tra i giovani, evidenzia un problema di benessere che va oltre la semplice soddisfazione materiale. Il legame tra salute emotiva durante l'adolescenza e le sue conseguenze sulla salute fisica in età adulta, in particolare riguardo alla problematiche disfunzionali correlate alla asse intestino-cervello, tra cui la sindrome dell'intestino irritabile (IBS) è un ambito di studio che merita particolare attenzione.
Il World Happiness Report non rivela le cause della situazione, ma si limita a mettere il luce i cambiamenti, sottolineando però una possibile correlazione tra la felicità (anzi, l’infelicità) dei giovani con una serie di fattori:
aumento dell'uso dei social media;
disuguaglianze di reddito;
crisi degli alloggi;
paure per la guerra e per i cambiamenti climatici.
Dopo i risultati del report, uno dei più accreditati medici statunitensi, il dottor Vivek Murthy, in un’intervista con il Guardian, si appunto è interrogato sul ruolo dei social media, dichiarando che permettere ai bambini di utilizzare i social media è come dare loro una medicina di cui non è stata dimostrata la sicurezza. Ha detto anche che l'incapacità dei governi di regolamentare meglio i social media negli ultimi anni è stata "folle".
Murthy ha descritto i risultati del rapporto come una "bandiera rossa che indica che i giovani sono davvero in difficoltà negli Stati Uniti e ora sempre più in tutto il mondo".
In Usa, gli adolescenti trascorrono in media quasi cinque ore al giorno sui social media e durante la settimana, un terzo di loro rimane sveglio fino a mezzanotte.
Pensiamoci insieme, osservando il panorama intorno a noi.
Molte ore davanti agli schermi: se noi bambini grandi ne passiamo fin troppe, pur in mezzo ai seimila impegni delle nostre To-Do List, figuriamoci i più giovani…
“Molte ore davanti agli schermi” significa molta luce blu, anche di notte, il che - a sua volta - significa dormire meno del necessario.
Per contro, significa avere meno tempo per stare all’aria aperta, vedere persone dal vivo, camminare su e giù facendo le vasche in centro, appollaiarsi sui muretti in piazza, perfino bivaccare fuori da un bar, in attesa che arrivi “crush”…
Meno tempo passiamo là fuori, nel mondo, e meno ne passeremmo.
Ricordiamocelo: il nostro magnifico cervello è tremendamente pigro e si abitua in fretta alle comodità.
Del resto, pare quasi una direzione collettiva. Abbiamo una serie di aggeggi e relative app che ci permettono di non uscire; con Amazon, Zalando, Shein e compagnia cantanti, possiamo fare shopping dal divano. Possiamo, per esempio, ordinare un paio di sneaker, trovarle al portone il giorno dopo, provarle e, in caso non ci andassero, rispedirle al mittente. Abbiamo la stessa facoltà con i libri, i trapani a percussione, i mobili, i prodotti skincare e quasi con qualunque altro acquisto che ci diventi - all’improvviso - irrimandabile.
Anche perché, diciamocelo, andare davvero in uno store non è che sia chissà quale esperienza, come se l’industria ci stesse spingendo a preferire gli acquisti online, che non richiedono mille punti vendita, seimila venditori, trentamila ore di training per i suddetti, e reparti HR, e costi di struttura…
Qualche giorno fa, un’amica mi ha raccontato che voleva un rossetto ma, per qualche strana ragione, invece di fare clic su acquista ora, aveva deciso di comprarlo in una di quelle catene specializzate in prodotti beauty. Ci era andata, era entrata e aveva trovato il rossetto che però costava il 10% in più del prezzo online. Ma ormai era in store e, siccome c’era, aveva chiesto a un’addetta all’assistenza clienti se almeno ci fosse un tester per vedere il colore vero.
– Ah no, non li abbiamo più – le aveva risposto l’addetta, un pelino seccata dalla domanda.
A quel punto, siccome la mia amica aveva preso la macchina, guidato tot minuti, parcheggiato, pagato il parcheggio con l’app, eccetera, aveva deciso di comprarlo comunque, ritrovandosi però con un rossetto tutto impacchettato nello scotch, con ben tre barrette anti-taccheggio incollate sul blister.
Morale: la mia amica mi disse che non avrebbe mai più comprato dal vivo. Non solo per il prezzo, ma per l’esperienza nel suo complesso (compreso la confezione del rossetto rimasta appiccicosa).
La stessa vicenda capita spesso con i prodotti di certi grandi store specializzati (la cara e vecchia GDS, Grande Distribuzione Satanica): se invece che startene online, vai di persona a cercare la brugola che ti manca, e ti viene l’infelice idea di fare una domanda sulla maledetta brugola che hai deciso che ti serve, sei costretto a braccare gli addetti che scappano come lepri inseguite da una muta di segugi. E quando e se riesci a bloccarne uno tra due scaffali, nel migliore dei casi, ti senti dire che non è il suo reparto. E quando ti giri, è il vuoto: l’apocalisse zombie degli addetti alle vendite.
La sensazione è che il mondo ci stia dicendo di starcene a casa.
“Tanto da casa, puoi fare tutto”.
“Puoi fare la spesa e raccogliere punti fragola senza nemmeno lo sbatti di prendere un carrello, o un cestino…”
“Puoi ordinare cibo pronto, già cotto, che volendo puoi mangiare direttamente dalla confezione… Cibo che quindi non devi cucinare, sporcando padelle e cucchiai di legno. Cibo che puoi ingurgitare e basta, tra l’altro prodotto per piacerti parecchio e quindi farti passare la voglia di ingegnarti a preparartelo da te”.
Non solo…
“E poi, se non ti muovi dal divano, inquini di meno”.
Okay che se io non mi muovo, inquino di meno, ma qualcuno si muove comunque, e non è detto che il suo furgone sia meno inquinante della mia auto. Di sicuro non lo è dei miei piedi…
In più, ogni volta che mangio cibo pronto, non solo sto inquinando il pianeta, ma soprattutto me stesso. Sto affaticando il mio organismo, e sto mettendo a dura prova il mio meraviglioso microbiota, dal quale dipendono buona parte delle funzioni vitali che fanno la differenza tra essere “felice” e il suo contrario.
Tornando agli smartphone e al tempo che passiamo sui social, e quindi ai giovani, la domanda è: perché uscire (e poi per vedere chi?), se posso stare sotto la coperta, in tuta, a scrollare reel uno dopo l’altro, dai tre ai cinque secondi cad?
Ci chiediamo perché i giovani stanno vivendo una crisi della mezza età? Ci chiediamo perché noi siamo meno felici di quanto potremmo e anzi dovremmo essere?
Forse la risposta ce l’abbiamo ed è in noi, sin da quando l’umanità ancora non aveva messo radici. Ha a che fare con il nostro cervello, quindi con un sistema basato sul risparmio che a livello viscerale ci fa evitare la fatica.
Ha a che fare, dunque, con il nostro stile di vita, con le cose che percepiamo come gratificanti (e, come abbiamo visto, anche più efficienti) tra cui, per esempio, passare più tempo seduti, anzi, stravaccati davanti ai nostri supertecnologici smartphone…
Se i giovani sono meno felici di quanto potrebbero essere, se molti di noi non se la passano meglio, se di conseguenza le nostre pance sono sempre meno senza pensieri, allora il problema è grave, ma forse potrebbe essere legato proprio alla gravità.
Ne parliamo sabato prossimo.
World Happiness Report
Il World Happiness Report è un barometro annuale che misura il benessere in 140 nazioni, coordinato dal Wellbeing Research Centre dell'Università di Oxford, da Gallup e dal Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite. Lo scopo del report è valutare il benessere soggettivo tracciando le risposte degli intervistati sulla loro vita e sulle loro emozioni positive e negative.