Diet Culture, Grassofobia e altri baby mostri che crescono
Il Giano bifronte della Diet Culture e le microplastiche
La grassofobia è una piaga recente. Alla faccia del “body positivity”, la nostra epoca ne è inzuppata fino alle ossa.
I media ci confondono: mentre ci raccomandano di accettarci, amarci per come siamo, eccetera, contemporaneamente ci bombardano di stimoli che non ci permettono di farci mai sentire abbastanza in forma, tonici, magri, splendidi.
La grassofobia è un Giano bifronte: una faccia schifata nei confronti del sovrappeso altrui, e una orripilata che guarda nello specchio temendo il nostro.
Fino a circa una sessantina di anni fa, quasi nessuno – ad eccezione di Cocò Chanel – si preoccupava di essere abbastanza magro. Piuttosto il pensiero ricorrente era trovare qualcosa da mettere sotto i denti per tacitare la fame costante almeno per una manciata di ore.
Poi il mondo si è industrializzato: con il boom economico portato dai tanto bistrattati Boomer, abbiamo quasi smesso di preoccuparci dei brontolii gastrici, e abbiamo guadagnato - si fa per dire - la possibilità di averne addirittura più del necessario.
Se siamo quello che mangiamo, oggi non siamo messi benissimo, visto che mangiamo troppo e mangiamo male. Sempre peggio. Peggio di vent’anni fa. Molto peggio di cinquanta.
L’assurdo è che, rispetto a mezzo secolo fa, oggi abbiamo una gran varietà di scelte alimentari, pappette per tutti i gusti e ogni palato, a qualsivoglia ora del giorno, già pronte per essere ingurgitate, senza nessunissimo sbattimento.
Peccato che buona parte di tale gran varietà sia un boomerang per il nostro organismo e una bella fatica per il microbiota che lo abita.
Il risultato è che a partire dalla metà degli anni Settanta, abbiamo assistito a un inarrestabile aumento di obesità, diabete tipo 1 e 2, malattie autoimmuni, asma, allergie, sinusiti, artrite, cancro, malattie cardiache, osteoporosi, Parkinson e demenza senile.
E non è un caso che, nello stesso periodo, si siano verificati dei cambiamenti apparentemente impercettibili nella nostra dieta e nel tipo di prodotti che utilizziamo per l’igiene personale e la vita di tutti i giorni.
È proprio negli anni Settanta che viene alla luce il baby mostro della “Diet culture”, prima svezzato con Twiggy, e poi allevato da Jane Fonda al ritmo della Dance Music.
Il baby mostro della Diet Culture è cresciuto.
Il baby mostro è cresciuto e si è fatto furbo, imparando a esprimersi in modo più corretto, ma solo di facciata.
“Accettati”, dice al suo pubblico/nutrimento.
“Non farlo”, dimostra con i fatti e le foto e i reel di corpi perfetti, pelli piallate, e occhi stirati tipo gatto.
Avanti veloce.
Il baby mostro della Diet Culture si allea all’industria alimentare, già in combutta con la plastica, in una gran bella associazione a delinquere. Insieme, i tre ci mettono a dieta vendendoci prodotti light e cibi pronti.
Nel metterci a dieta, paradossalmente, ci portano a ingrassare.
A livello globale, stiamo mettendo peso, più peso di quanto il nostro corpo sia capace di gestire. Stando ai dati, 1,4 miliardi di adulti (il 35% della popolazione mondiale) ha problemi di eccesso di peso e tra questi mezzo miliardo è obeso.
Già nell’ormai lontano 2016, secondo il rapporto Eurostat del suddetto periodo, poco più della metà degli Europei era sovrappeso (il 51,6%), il 35,7% preobeso e il 15,9% obeso.
In teoria, avere cibo in abbondanza è un gran bella cosa.
In pratica no, affatto: come ci insegna Valter Longo, Direttore del Longevity Institute, University of Southern California, mangiare meno aiuta a vivere meglio e più a lungo.
L’abbondanza porta alla noncuranza
La noncuranza produce effetti visibili e silenti: i primi sono a forma di rotolino e vanno “combattuti”; i secondi si manifestano a livello endogeno, alterando l’equilibrio di tutti i nostri sistemi e organi, compreso il nostro intestino, e dunque ovviamente incluso il microbiota.
Tra gli effetti, ce n’è un terzo che tocca l’ossessione – anche questa abbastanza recente – per il cosiddetto “peso forma”, figlia per l’appunto del baby mostro della Diet Culture.
Il paradosso di questo terzo effetto è che ogni volta che stressiamo il nostro organismo sottoponendolo a privazioni alimentari, soprattutto drastiche, e ripetute, il metabolismo reagisce andando in difesa.
Perché la Diet Culture fa ingrassare?
È stato dimostrato che le privazioni e la denutrizione da carestia – incluse le diete – riescono a modificare i nostri geni1, in particolare l'FTO, un gene responsabile dell'obesità.
In tempi di carestia, per esempio, il nostro corpo attiva particolari meccanismi metabolici di risparmio energetico, che sono stati descritti in maniera semplificata come "parsimoniosi" da James Neel nel 19622. Questi meccanismi, che ci permettono di immagazzinare energia più efficacemente, sono il risultato di complessi adattamenti evolutivi sviluppatisi per far fronte a periodi di scarsa disponibilità alimentare. Queste strategie di sopravvivenza, sviluppate nel corso delle generazioni, hanno avuto implicazioni significative per la nostra salute in un'era di abbondanza alimentare.
In sostanza, l’ossessione per la “linea” (espressione un po’ vintage, me ne rendo conto!), porta il nostro organismo a resistere. Come se ci dicesse: “Ah, fino a ieri libagioni a volontà e adesso insalatina? Sta’ a vedere che ti combino!”
La resistenza fa sì che il peso perduto - casomai ce ne sia – venga recuperato non appena finisce la carestia.
Non solo: la sofferenza indotta dalle restrizioni alimentari stressa il sistema che di suo non ama il dolore, anzi lo rifugge come fosse una tigre dai denti a sciabola, e quindi fa di tutto per vanificare i nostri sforzi.
Risultato? Ci mettiamo a dieta oggi e tra due-tre anni siamo più grassi di prima.
Ditemi voi se non è un paradosso…
Come se non bastasse, mentre navighiamo nell'era dell'abbondanza, c’è un altro invisibile e insidioso nemico che si insinua nelle nostre vite (in tutti i sensi…) alimentato dall’industria: le microplastiche e i loro subdoli compagni, gli additivi plastici.
Le plastiche entrano in noi e ci cambiano.
Secondo le sorprendenti conclusioni di uno studio3 finanziato dal NIEHS4, queste particelle minute non sono semplici detriti ambientali, ma agenti attivi che possono riscrivere il destino del nostro metabolismo. Stabilizzanti termici, plastificanti, ritardanti di fiamma - tutti progettati per rendere la plastica più resistente, flessibile, o meno infiammabile - ora emergono come possibili complici nell'epidemia di obesità che dilaga sul globo.
"La produzione e l'utilizzo della plastica sono cresciuti considerevolmente negli ultimi cinquant'anni e ci sono prove a sostegno dell’ipotesi che le microplastiche e i loro additivi siano potenziali obesogeni", osserva l’autore principale dello studio, Kurunthachalam Kannan5, tracciando un parallelo inquietante con l'ascesa dei tassi di sovrappeso e obesità.
"Una persona media è esposta quotidianamente a pochi o diversi milligrammi di microplastiche", continua Kannan. “Se si confronta questa esposizione con altre sostanze chimiche ambientali, che di solito è nell’ordine dei nanogrammi o microgrammi giornalieri, l’esposizione alle microplastiche è enorme ed è motivo di preoccupazione”.
La correlazione che ne deriva è quantomeno inquietante: le microplastiche e gli additivi che contaminano il nostro quotidiano potrebbero essere i burattinai nascosti dietro l'aumento globale del nostro peso corporeo.
Tutto ciò detto, la domanda è: siamo spacciati?
Se andiamo avanti di questo passo, può darsi.
Così, mentre il mostro della Diet Culture si ciba delle nostre insicurezze, le microplastiche tessono invisibili reti intorno al nostro metabolismo, invitandoci a una battaglia che va oltre la dieta e l'esercizio fisico, verso una riflessione più radicale sul nostro rapporto con l'ambiente. È forse tempo di riscrivere le nostre priorità, lanciando una sfida non solo alle calorie, ma anche ad una certa Plastic Culture che insidia la nostra esistenza.
Ma ho una buona notizia: dal tunnel c’è una via d’uscita. Ne parlerò nel mio secondo libro, in revisione proprio in questi giorni…
Attenzione: la parola gene non deve trarre in inganno, perché i nostri geni si modificano anche nel corso della vita, come sta dimostrando l'epigenetica, la scienza che finalmente ha capito che anche i geni sono plastici, come il cervello, e possono cambiare al bisogno.
"I cambiamenti ai geni, in risposta all'ambiente (chiamiamoli 'epi-mutazioni'), si verificano 100.000 volte più frequentemente delle semplici, vecchie mutazioni genetiche di Darwin".
Si fa riferimento a una teoria proposta dal genetista James Neel nel 1962, conosciuta come l'ipotesi del "gene parsimonioso". Questa teoria suggerisce che, in tempi di carestia o scarsità di cibo, gli esseri umani attivano meccanismi metabolici di risparmio energetico per sopravvivere in condizioni di limitata disponibilità alimentare. Questi meccanismi sarebbero poi trasmessi geneticamente alle generazioni successive.
Il National Institute of Environmental Health Sciences (NIEHS) è l'agenzia governativa statunitense che studia gli effetti dell'ambiente sulla salute umana.
Kurunthachalam Kannan, Ph.D., ricercatore e professore presso il Dipartimento di Pediatria presso la Grossman School of Medicine della New York University