15 minuti per realizzare il sogno di una gastroenterologa
La relazione tra la pancia e il cervello, anzi, tra la pancia e i due cervelli
La sala d’aspetto del reparto di gastroenterologia è piena di persone arrabbiate. Qualcuno fa avanti e indietro dal banco accettazione. Qualcuno protesta. In molti si lamentano.
Quando la dottoressa Grace apre la porta dello studio, e vede una dozzina di persone inferocite in attesa, prova a sorridere (anche se si sente malissimo) e si scusa.
“Mi dispiace,” dice facendo entrare un paziente, “stiamo facendo il possibile”.
Subito si sente doppiamente in colpa: primo perché è in ritardo, e secondo perché si ricorda di aver visto un video di uno speaker che vietava l’uso delle scuse: “Non scusatevi. Non fatelo!”
Alle undici e venti del mattino, la dottoressa è così in ritardo sulla tabella di marcia che comincia a chiedersi se quello che sta facendo, il suo lavoro per intero, abbia senso: il primo paziente della giornata era arrivato qualche minuto dopo e poi aveva richiesto più tempo di quanto lei ne avesse a disposizione, cioè i “quindici minuti e non uno di più” decisi dal manager del suo reparto. Quindici minuti per far accomodare una persona, darle modo di sentirsi a suo agio, ascoltare i disagi, riuscire a capire se il problema che manifesta o la diagnosi con cui si presenta sono correlati ai sintomi che riferisce, visitare la persona, definire un approccio terapeutico corretto, e quindi stabilire quali esami e visite specialiste e/o terapie suggerire.
Quindici minuti sarebbero pochi, troppo pochi, anche se i pazienti conoscessero così a fondo il loro apparato gastrointestinale, il loro corpo e la medicina, da riferire con precisione scientifica i loro sintomi. Sarebbero pochi anche se le persone non fossero in difficoltà nel raccontare, per esempio, che non riescono ad andare in bagno in modo sereno, o viceversa che preferiscono non uscire di casa per paura di farsela addosso. O ancora nell’ammettere, sempre ad esempio, che non hanno affatto smesso di fumare, o di bere, o anche solo di passare buona parte della giornata in ufficio rimpinzandosi di prodotti confezionati.
Quindici minuti potrebbero bastare solo se la dottoressa fosse un tecnico informatico davanti a un computer che di colpo non funziona più. In tal caso, la dottoressa, coi suoi 15 minuti a disposizione, potrebbe avviare una diagnosi della macchina, trovare il problema e forse anche risolverlo.
Solo che i pazienti non sono computer: sono persone.
Le persone non sempre conoscono il loro corpo. E anche quelle che lo studiano - medici, infermieri, operatori sanitari e professionisti della salute - non sempre lo ascoltano.
Come scrivevo in “Intestino senza pensieri”, viviamo in un corpo che non conosciamo e che non ascoltiamo, ma del quale ci lamentiamo. Lo trattiamo male, anzi, non lo trattiamo affatto, passando tutta la nostra vita a correre di qua e di là senza prenderci cura del sistema che ci permette di vivere se non quando questo sistema per qualche motivo smette di funzionare.
Fino a ieri andava tutto bene, e all’improvviso ecco che non va più.
Peccato che non sia mai “all’improvviso”: ogni disturbo che avvertiamo è un segnale prima lieve trasmesso dalla “torre di controllo” di un corpo che non conosciamo e non siamo per niente abituati ad ascoltare.
Il vero problema è che a questo nostro corpo diamo ordini dalla mattina alla sera, trattando le nostre cellule come schiavi dei quali non ci interessa nemmeno conoscere il nome, figuriamoci la forma, la funzione, o le migliaia di interrelazioni con tutto il resto del sistema.
La nostra comunicazione con il nostro corpo è una specie di monologo fatto di ordini e diktat in cui noi siamo il dittatore e lui il suddito: fai questo, fai quello, corri di qua e di là. Lavora, produci, mi raccomando non perdere tempo. Cresci, ma non invecchiare. Okay, invecchia, ma per favore fallo bene, come sui social. Mangia quello che ti do da mangiare ma non ingrassare. Suda, ma non puzzare. Liberati di quello che non ti serve senza fare rumore e in fretta.
E il corpo per un po’ ci sta: fin da piccolo, da quando ancora è fatto solo di pochi miliardi di cellule, si adegua a questo rapporto dispotico e monodirezionale, limitando le sue proteste al minimo indispensabile.
Il problema della dottoressa Grace è che, lavorando da vent’anni a contatto con la gente, sa che anche le poche persone che ascoltano il loro corpo, non sempre sanno tradurre i messaggi che sentono. A volte fanno fatica a trovare le parole giuste, altre sono così in imbarazzo da non riuscirci, pur conoscendo le parole. E di minuti, la dottoressa ne ha solo quindici. “Non uno di più”. Sono i tempi della sanità. Nella fattispecie, quelli di un grande ospedale americano. Da quando la dottoressa entra in reparto a quando torna a casa tardi, sempre troppo tardi, per dieci, dodici, a volte 14 ore al giorno, la gastroenterologa corre contro il tempo in una specie di missione impossibile imposta dall’alto, dal budget, dal manager, da un sistema sanitario pieno di falle.
In un mondo ideale le servirebbe più tempo per ognuno dei pazienti che incontra.
Il suo grande sogno, quello che ormai vent’anni fa, dopo la laurea in medicina, l’ha spinta a specializzarsi in gastroenterologia, era aiutare le persone a stare meglio, imparando a conoscere le loro pance, per trattarle in modo da far felice il loro microbiota e quindi rendere più sereni entrambi i cervelli, quello in alto e quello in basso. Eppure, questa mattina, la dottoressa si chiede se il suo sogno non sia troppo grande. Se non sia troppo presto. Se quel poco che riesce a fare lei sia abbastanza. Se le parole che riesce a dire nel corso dei minuti concessi dal manager, arrivino all’orecchio, al cuore, e soprattutto ai due cervelli dei suoi pazienti, gli stessi due cervelli scoperti da un certo Michael Gershon1, professore della Columbia University.
Sempre che i cervelli siano solo due… (ma di questo tema parleremo nel prossimo post).
La domanda, a questo punto, è:
Perché non conosciamo il nostro corpo?
Anche a distanza, mentre scrivo il quesito mi sembra di sentire la voce di Carlotta che fa la commercialista, di Augusto che fa il fabbro, di Giulia che sta finendo l’università e di Andrea che ha appena aperto un podcast.
Le voci che sento dicono più o meno tutte la stessa cosa: “nessuno me l’ha insegnato”.
Vero: la scuola non ce lo insegna, se non all’interno dei percorsi di studio dedicati alle professioni medico-sanitarie. E gli articoli scientifici e i testi medici sono solo per i medici, o aspiranti tali.
Ecco perché sono qui a scrivere, di domenica sera, invece di fare altro, fosse anche il solletico alla mia signora: perché se possiamo riconoscere un grande merito a internet, anche in mezzo a tutte le sue trappole, è l’accesso alla conoscenza.
Il motivo è lo stesso che mi spinse a scrivere il primo libro: condividere informazioni sulla e intorno alla nostra pancia per fare in modo che sempre più persone imparino a conoscerla. E quindi a smettere di soffrire per la sindrome dell’intestino irritabile, per la stipsi, per la paura di uscire “casomai” arrivasse un attacco di dissenteria… Ma anche per ritrovare l’equilibrio tra corpo e mente, e rimettere d’accordo tutti e due i nostri cervelli.
“The second brain”, Michael D. Gershon, 1998